8. Le dominazioni pisana e genovese
Nel
discorso attorno all'insularità della Sardegna meritano un’attenzione particolare le dominazioni pisana e
genovese perché dimostrano sia quanto fosse importante per queste repubbliche
marinare la posizione geografica della Sardegna in mezzo al Mediterraneo
occidentale e sia l’importanza per i Sardi di aprirsi al resto del mondo
attraverso la cultura e gli scambi per superare i rischi di una pericolosa
chiusura e conseguente decadenza. In quest’ottica, ripercorrere sommariamente
le tappe principali delle dominazioni pisana e genovese può essere illuminante.
Per contestualizzare le valutazioni e i giudizi che
saranno presentati nella seconda parte di questo capitolo (nel prossimo articolo) è indispensabile
qualche riferimento puntuale a date e a personaggi. Occorre anche tener
presente che i protagonisti dell’epoca in Sardegna non furono soltanto i
Giudici (più interessati al loro arricchimento che al bene del popolo) né i
Pisani (soprattutto nei Giudicati di Cagliari e di Gallura) e i Genovesi
(soprattutto nei Giudicati di Torres e di Arborea), ma anche il Papa (dapprima
in lotta e poi vincitore dello scontro tra Papato e Impero) e l’Imperatore
(anch'egli pretendente al dominio sulla Sardegna), benché entrambi in crisi nel
XIII secolo.
Origine e debolezza dei Giudicati
Col progressivo distacco effettivo della Sardegna da Bisanzio/Costantinopoli, forse già nel secolo X, ma almeno dal secolo XI, le quattro entità territoriali di Cagliari, Torres, Arborea e Gallura divennero sempre più indipendenti dall'Impero. Chiamate Giudicati o regni indipendenti e sovrani, erano rette da «Giudici», «regoli» o «re», che accentravano in sé poteri civili e militari. Si trattava di quattro piccoli Stati, anche se alcuni, specialmente i Giudici di Cagliari e di Torres, si attribuivano il titolo di «rex Sardiniae», benché sapessero bene che non esisteva una signoria generale sulla Sardegna, ma solo su una parte dell’isola (cfr. Maninchedda 2012).
Ciò che è maggiormente sorprendente, date la
dimensione e la scarsa popolazione dell’isola nel Medioevo, non è tanto il
numero dei Giudicati, quanto la loro perenne conflittualità per la difesa della
propria sovranità, che li rendeva particolarmente deboli e vulnerabili, tanto
da costringerli a chiedere sostegno e protezione a questa o a quella potenza
esterna e a due in particolare, le repubbliche marinare di Pisa e Genova, con
le quali esistevano già rapporti commerciali.
Alle rivalità interne si aggiunse sul finire
del secolo X un pericolo esterno grave, dovuto alle sempre più frequenti
incursioni e razzie dei pirati saraceni. Data l’incapacità dei Sardi di
contrastare le continue aggressioni con una difesa comune, si fece strada, agli
inizi del secolo XI, l’idea di organizzare una grande coalizione anche con
forze esterne sotto l’egida del papa, di fatto l’unica autorità sopraggiudicale
in grado di promuoverla, anche se non da tutti riconosciuta.
Tentativi di egemonia papale
Il papa acconsentì, sia per affermare la
sovranità (la plenitudo
potestatis) del Sommo Pontefice sulla Sardegna, rivendicata in base alle presunte
donazioni alla Chiesa dell’imperatore Costantino (Constitutum Constantini),
del figlio e successore di Carlo Magno, Ludovico il Pio, e dell’imperatore
Rodolfo I d’Asburgo, e sia nella speranza di ottenere la sottomissione dei
Giudici della cui fedeltà dubitava. In effetti i Giudici sardi non ricorrevano
all'unzione da parte del vescovo o del papa per giustificare il loro potere, ma
ritenevano che venisse loro direttamente da Dio, «gratia Dei», formula
che almeno nelle intenzioni avrebbe permesso ai governanti calaritani, ma in
genere anche agli altri Giudici, «di sbarazzarsi di qualsiasi dipendenza
politica esterna (la Sede Apostolica) e interna (l’elezione da parte di nobili,
clero e laici) al loro Stato» (Gallinari 2010).
| Benedetto VIII (980-1024) |
Poiché dopo la vittoria sui Saraceni, il papa
non aveva ottenuto l’auspicata sottomissione dei giudici, Gregorio VII (1073- 1085) richiamò con una lettera del
14 ottobre 1073 i quattro regoli/giudici sardi all’antica obbedienza e
dipendenza dalla Chiesa di Roma, minacciandoli addirittura, qualora non si
fossero sottomessi, di cedere l’isola ad una nazione straniera. Il 5 ottobre
1080, tuttavia, lo stesso Gregorio VII scriveva a Onroco giudice di Cagliari di aver rigettato le proposte
fattegli dai Normanni, dai Toscani, dai Longobardi, e «da parecchie genti
oltremontane» per la concessione della provincia cagliaritana» (Codex
diplomaticus Sardiniae XI). Evidentemente tutti i giudici si erano sottomessi
al papa, anche se Innocenzo III (1198-1216) comincerà
a pretendere precauzionalmente anche un giuramento di fedeltà.
Dipendenza finanziaria e politica da Pisa e Genova
Benché salvata dai nemici esterni, grazie ai
Pisani e ai Genovesi, la Sardegna non riuscì a salvarsi dai conflitti interni
che la rendevano debole e dipendente. Infatti, dopo la vittoria sui Saraceni, le
due potenze marinare, resesi conto dell’importanza commerciale e strategica
dell’isola e della debolezza dei Giudici sardi, cominciarono a intrattenere intense
relazioni con i vari Giudicati non solo commerciali, ma anche finanziarie e
politiche. Infatti i regoli sardi, sovente in conflitto fra loro, ma privi di
denaro, di eserciti e di flotte, per difendersi dal nemico del momento,
sollecitavano il soccorso militare e finanziario delle due città marinare, «in
cambio di una cascata di franchigie e concessioni, inframmezzate da matrimoni
di convenienza e da atti di sottomissione» (Day 1984).
Le concessioni riguardavano le cosiddette donnicalias,
ossia «modesti casali demaniali ceduti con la popolazione servile, il bestiame,
le terre e le immunità fiscali e giuridiche alle cattedrali di Pisa e di
Genova», ma anche «ville» [villaggi], chiese, tributi. Con queste concessioni e
con la politica dei matrimoni di convenienza, Pisani e Genovesi cercavano di
rafforzare i loro legami con i Giudici sardi, ma allo stesso tempo accrescevano
l’antagonismo tra loro, facendo diventare la Sardegna terreno di scontro delle
due repubbliche e comunque indebolendola.
La situazione secondo C. Cattaneo
![]() |
| Antica carta nautica della Sardegna |
I Giudici, che vedevano nella protezione di
Pisa o di Genova la garanzia della propria sopravvivenza (anche perché erano
spesso malvisti dalle loro popolazioni), finirono per accettare se non una vera
e propria dipendenza diretta, un’influenza commerciale e persino politica
sempre più stretta delle due repubbliche. Fu così che «nel basso Medioevo
Pisani e Genovesi, sotto il titolo di protezione o di amicizia, la dominarono
in parte parecchi secoli, e vi mantennero florido commercio» (Corridore 1900). Per
rendere più sicuri e stabili i rapporti dei Giudici con le due repubbliche,
tanto Pisa che Genova pretendevano talvolta da loro persino un giuramento di
fedeltà.
Il caso Barisone
L’episodio a cui accennava Cattaneo, riguardante il giudice d’Arborea Comita II e suo figlio Barisone, ebbe clamorosi sviluppi che meritano di essere raccontati per capire la debolezza dei Giudicati sardi e l’influenza pisana e genovese sulla politica giudicale nel XII secolo, ma anche le ambizioni dell’Imperatore e del Papa.
Barisone I, divenuto Giudice di Arborea nel 1146, concepì il fantasioso piano di farsi incoronare re di Sardegna dall'imperatore Federico Barbarossa (1164), interessato a portare nella sua sfera d’influenza l'isola, che non gli apparteneva. Non avendo il denaro necessario, Barisone se lo fece prestare da mercanti genovesi, ma fallì non solo nel suo intento velleitario ma pure nella sua carica di Giudice. Infatti, per ricevere il titolo di Re di Sardegna dovette dichiararsi vassallo imperiale e impegnarsi al pagamento annuo di quattromila marchi d'argento. Per averli, Barisone firmò un trattato con Genova, che garantiva ai genovesi il diritto di mercanteggiare nel suo territorio, l'uso del porto di Oristano e i castelli di Arculentu e Marmilla. Ciò nonostante, non riuscendo a raccogliere il denaro necessario, gli fu impedito di tornare in Arborea e l'imperatore gli tolse il titolo regale, proclamando l'archidiocesi di Pisa unica sovrana dell'intera isola. Solo nel 1168 Barisone poté tornare in Arborea, ma fino all'estinzione del debito già contratto dovette lasciare a Genova sua moglie e suo cognato come ostaggi. Non ricevendo più aiuti né da Genova né da Pisa, Barisone poté contare unicamente sul sostegno della corona d'Aragona. Ecco come ha ricordato la vicenda Carlo Cattaneo:
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| L'imperatore F. Barbarossa nel 1164 incoronò Barisone I giudice d’Arborea re di Sardegna. |
«Barisone d’Arborea, assalito nel suo piccolo stato dai
giudici di Logodoro e di Cagliari, concepiì nella sua fuga lo strano pensiero
di farsi re di tutta l’isola; e i Genovesi lo secondavano, e per farselo
strumento di potenza, chiesero per lui all'imperatore Federico Barbarossa il
nome di re di Sardegna; e questi, che aveva già dato quel titolo al proprio zio
Guelfo, il rivendeva a Barisone per quattromila marchi d'argento; e lo
incoronava di sua mano in S. Siro di Pavia, fra gli applausi dei guelfi
Genovesi, e le fiere lagnanze dei legati pisani, che gli rinfacciavano la mal
premiata loro fedeltà ghibellina. Ma Barisone, non avendo l'argento promesso,
ne richiese gli amici Genovesi; ed ebbe a dichiararsi loro procuratore nel
proprio regno, e promettere fortezze e porti e terre e denari, e doni alle
chiese di Genova, e il primato dell'isola al loro Arcivescovo. Ma trovati
avversi i popoli, e fallita l'impresa, il console Piccamiglio lo ricondusse
tosto a Genova, e lo tenne custodito in pegno delle fatte prestanze, mentre i
giudici rivali e i guerrieri pisani gli depredavano lo stato. E i Pisani con
quella preda andavano anch'essi all'imperatore, e gli esibivano quindicima
lire; e Barbarossa investiva della Sardegna anche il console di Pisa, e gli
dava una carta solenne e il gonfalone imperiale; e infine, non avendo forza
d'avvalorare il suo giudicio, li lasciava liberi di decidere la lite colle
armi. E infatti i Genovesi arsero le cose dei mercanti pisani a Porto Torre; ed
essendo i Pisani sbarcati e infestando le terre, i popoli levati a rumore ne
fecero esterminio. Ma il giudice corse vilmente a Pisa a chieder perdono del
valore delle sue genti, e promise denari, e giurò a Pisa la stessa fedeltà che
aveva quell'anno medesimo giurata ai Genovesi. Dopo nuove zuffe per terra e per
mare, Barbarossa chiamò di nuovo i contendenti in Pavia, e divise fra loro
l'isola. Ma i Genovesi, oltre la propria metà, volevano anche l'altra, e
guadagnarono il giudice di Cagliari, e lo fecero giurare. «Io donzel Pietro (Ego
domicellus Petrus), giudice e re di Cagliari, giuro ai santi evangelii di Dio,
che da quest'ora in avanti darò il commercio del mio stato ai Genovesi, né lo
permetterò ad alcun Pisano». E qui mentre appare come la signoria dei Liguri e
Toscani sull'isola si riducesse in fin del conto alla prerogativa di
commerciarvi, appare anche manifesto il peccato ereditario e indelebile dei
Sardi di non voler far essi il proprio commercio; dal qual fonte sciagurato
scaturì sempre dipendenza, povertà, ignoranza e ferocia» (Cattaneo 1841).
Sussidiarietà
dei traffici sardi
Non
rientra nell'intento di questo studio seguire nei particolari tutte le vicende
dei Giudicati sempre in lotta tra loro col sostegno dell’una o dell’altra
repubblica marinara e l’indifferenza o la complicità del Papato, perché lo
scopo principale di questo scritto è quello di osservare se e quanto i Sardi
hanno beneficiato del dominio di potenze straniere, nel caso specifico dei
Pisani e dei Genovesi, a prescindere dall’esito finale della loro dominazione.
In questa valutazione non si può non tener
conto dell’osservazione, condivisibile in gran parte, di Olivetta Schena,
secondo cui la Sardegna non rappresentava negli intenti di Pisa e Genova un
obiettivo finale, ma un elemento importante di collegamento tra le due grandi
città e i mercati più ricchi della Sicilia e del Mediterraneo orientale:
«L’impressione che gli storici hanno ricavato dall'analisi
di questi traffici diramatisi dalla Liguria e dalla Toscana, almeno sino alla
conclusione del XII secolo, è che gli uomini d’affari continentali
utilizzassero la Sardegna (e con un ruolo più modesto la Corsica) come tappe
fondamentali per il collegamento tra le loro città e i ricchi mercati
costituiti dal regno di Sicilia, fondato e governato dalla dinastia normanna
degli Altavilla, dai centri costieri del Maghreb (Tunisi, Bugia, Algeri, ecc.)
e dai favolosi empori del Mediterraneo orientale (Costantinopoli, Alessandria
d’Egitto, San Giovanni d’Acri). La sussidiarietà dei traffici sardi è stata più
volte provata grazie al confronto tra tutti i contratti registrati nei
cartulari notarili, dai quali emerge che in Sardegna spesso (ma non sempre) le
cifre investite erano più contenute, i mercanti non appartenevano solitamente
ai massimi vertici della società cittadina di origine (anche qui potevano
esserci notevoli eccezioni) e le imbarcazioni impiegate non sempre erano adatte
alla navigazione d’alto mare: si deve infatti tenere presente che sicuramente
da Porto Pisano, ma anche da Genova in occasione di giornate limpide, si può
arrivare via mare fino a Cagliari senza mai perdere di vista la terra,
appoggiandosi alla Corsica e alle isole dell’arcipelago toscano, cosa
impossibile per chi navighi dai porti del Meridione continentale o da quelli
siciliani» (Schena 2011).
Epilogo
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| Bonifacio VIII (1230-1303) |
La decisione di Bonifacio VIII, il quale
«tramava per abolire i regni giudicali e creare nell’Isola un unico regno e nel
contempo distogliere i catalano-aragonesi dagli interessi sulla Sicilia», pose
fine anche al dominio pisano-genovese in Sardegna. Con la bolla «Super reges
et regna» del 4 aprile 1297, Bonifacio VIII «infeudò re Giacomo II il
Giusto di Aragona di «un inesistente Regnum Sardinie et Cosice, che
avrebbe dovuto conquistarsi con le armi» (Pintus 2015). Il Regno di Sardegna
sarà realizzato di fatto solo in seguito, dopo il 1323, quando gli Aragonesi
riuscirono a sconfiggere militarmente i Genovesi e a occupare la Sardegna (ma
non la Corsica, che restò ai Genovesi). Con gli Aragonesi tornava in Sardegna
il feudalesimo e vi resterà per quasi quattro secoli, «facendo regredire la
proto-modernizzazione introdotta sul finire del Medioevo da Pisani e Genovesi»
(Corsale 2019).
Giovanni Longu
Berna 22.07.2024




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